Il pianista napoletano ripercorre la sua vita e il suo rapporto con Michelangeli

Intervista di Vesna Maria Brocca

All’ottantasettenne Aldo Ciccolini, uno dei più grandi maestri del pianoforte del nostro tempo, napoletano di nascita e parigino d’adozione, questa sera (lunedì 17 settembre 2012) è stato conferito al Teatro La Fenice il premio “Una vita nella Musica 2012”, considerato dalla critica internazionale come l’equivalente di un Nobel della musica. Giunto quest’anno alla sua XXXIII edizione, il Premio è stato fondato nel 1979 e assegnato per la prima volta ad Arthur Rubinstein. Ideatore del prestigioso riconoscimento il regista veneziano Bruno Tosi che è venuto a mancare lo scorso 13 settembre, ricordato come promotore di numerose iniziative culturali e grande appassionato di lirica, come dimostra la sua preziosa collezione di cimeli di Maria Callas più volte esposti in Italia e all’estero.

Avendo avuto il privilegio di intervistare personalmente il maestro Ciccolini poche ore prima della cerimonia di premiazione, ho il piacere di condividere quanto appreso con tutti i lettori di queste righe.

Fra poche ore riceverà il premio «Una vita nella Musica 2012». Com’è stata la Sua vita vissuta in nome e per la Musica fino a questo istante?

«Ho l’impressione di aver vissuto soltanto per la Musica. Non c’è stato un solo istante della mia vita in cui abbia pensato a qualcos’altro. La Musica è sempre stata al primo posto. La mia è stata una vocazione».

Si dice che Lei abbia ereditato, dai professori con cui ha studiato, gli insegnamenti di Ferruccio Busoni e di Franz Liszt: è vero?

«È vero che il mio Maestro è stato allievo di Busoni a Weimar, però, un Maestro come si deve, non crea dei cloni. Per cui ho ereditato dei principi generali, ma non altro».

Dall’alto della Sua esperienza, cosa ci può dire riguardo alla qualità dell’insegnamento nei Conservatori italiani?

«La situazione è quella che può essere in quest’epoca così travagliata. Per me l’insegnamento è -ho iniziato ad insegnare molto tardi, dal ’72 quando ho presentato la mia candidatura al Conservatorio di Parigi- aiutare i giovani a scoprire se stessi. Perché c’è un certo insegnamento, che a me ha dato sempre fastidio, che è quello che consiste nel dire all’allievo: «fai quello che faccio io», senza tener conto che l’allievo è un’altra persona, che può avere un altro temperamento, altri gusti. La cosa da sviluppare è la personalità dell’allievo. Questa personalità non la si può sviluppare se non aiutando l’allievo a liberarsi da tutti i preconcetti, da tutti i presupposti a volte macchinosi. Bisogna, in breve, insegnare all’allievo ad insegnare a se stesso, indicandogli quali sono le leggi estetiche della Musica, quali sono i procedimenti comuni nella preparazione, nella tecnica, tenendo conto però che ognuno ha delle mani differenti dall’altro. La cosa che noi possiamo cercare di sviluppare è la tranquillità muscolare, perché se un ragazzo è in preda a problemi di famiglia o, per esempio, è un po’ terrorizzato dal maestro che usa modi bruschi, questo non serve a niente. La gente che fa questo non ha capito nulla dell’insegnamento e dovrebbe andare a casa. Tengo molto che i miei ragazzi possano suonare secondo la propria natura. Certo, è un lavoro difficile perché quasi tutti i giovani di oggi sono in preda a problemi di ogni genere, problemi esistenziali, problemi materiali. Dunque, bisogna tranquillizzarli e dare loro fiducia».

Un Suo ricordo di Arturo Benedetti Michelangeli.

«Ci siamo visti soltanto una volta, nel 1950 a Bologna, quando egli ha assistito al mio debutto. L’ho incontrato dal Direttore del Comunale e ci siamo parlati. Mi ha affascinato e ho notato questa tristezza che poteva passare per un segno quasi di cattivo umore. No! Era un uomo molto gentile, ma triste. E quando suonava in pubblico, con quei capelli lunghi, avevo quasi l’impressione di vedere Cristo».

Chi è stato, se c’è stato, il compositore che ha prediletto?

«Il compositore prediletto sotto tutti i punti di vista, musicale e umano, è stato Schubert. Se noi pensiamo che Schubert ha vissuto soltanto 31 anni e ci ha lasciato dei capolavori irraggiungibili… Devo dire, però, che amo tutti i musicisti: dal momento che si studia e si soffre, questi diventano parte veramente del nostro quotidiano, come se fossero presenti».

Cosa consiglia ai giovani musicisti?

«Cercate di andarvene! Questa domanda era stata fatta anche ad Eduardo De Filippo e rispondo come lui: «Jatevenne». Andatevene! Perché io temo la società di oggi in cui tutto gira attorno ai soldi e a mille cose che non hanno alcun valore, né estetico né altro: in questi casi bisogna allontanarsi. E questo vale in parte anche per la Francia. Ormai l’Europa è tutta, più o meno, attaccata da questo morbo del qualunquismo a qualsiasi prezzo, dell’effimero. Io consiglierei l’Asia in cui c’è veramente un rispetto, quasi un’adorazione dell’Arte, commovente e molto difficile da spiegare. Il pubblico giapponese per esempio è composto da moltissimi giovani e loro vanno al concerto come se si trattasse di un rito. Il silenzio poi di questo pubblico è impressionante. E l’educazione, la maniera di essere. In Europa, ovunque si vada, la gente strilla nei ristoranti, è disordinata, fa rumore, non c’è più rispetto per niente e tutto è permesso».

Intervista che ho realizzato nel 2012 e già pubblicata su Amadeus on line

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